La parola CRISI, dal greco “krino”, significa separare, cernere, valutare. Essa prevede quindi una rottura, un cambiamento ma anche una possibilità di scelta, una rinascita.
Quando ci sentiamo in crisi, il nostro sistema di credenze, le nostre convinzioni, oppure le relazioni che stiamo vivendo o i contesti di vita vengono messi in discussione, non li sentiamo più adatti a noi o in grado di rispecchiare le nostre aspettative e soddisfare i nostri bisogni. Si attuano allora dei tentativi di cambiamento per riadattarsi e ritrovare il proprio agio. Spesso, avviene spontaneamente un riadattamento alla situazione, perché mettiamo in atto le nostre risorse e capacità di resilienza. Altre volte, abbiamo bisogno di rivolgerci a un esperto, per capire cosa ci sta dicendo questa crisi e come uscire dall’enpasse. Come dice l’etimologia della parola, la crisi ci porta ad affrontare una rottura da una situazione che stiamo vivendo, di fronte alla quale non possiamo fare altro che attuare un cambiamento. Se ci poniamo di fronte a questa crisi con uno sguardo di curiosità e ascolto, possiamo trasformarla in una occasione di evoluzione e rinascita, intesa come possibilità di far emergere nuove parti di sé. Prova a fermarti e a rispondere a questa domanda: Di fronte a una situazione di crisi che hai vissuto, cosa hai fatto per affrontarla? A volte, può sembrarci di non aver fatto nulla per affrontare la crisi, di essere stati completamente passivi e inermi di fronte a ciò che ci stava capitando. In realtà, anche il non fare nulla è una azione, a volte può essere anche una reazione utile per la sopravvivenza. Altre volte, pensare di non aver fatto nulla può parlarci del nostro sentirci impotenti di fronte alle avversità o agli imprevisti. Anche questo è un messaggio su di noi da non sottovalutare! Quando si vive una situazione critica, il disagio emotivo che si sta vivendo può portare a non essere consapevoli di ciò che stiamo facendo per affrontarla. Spesso, è solo dopo aver superato il momento critico che riusciamo a riconoscere il nostro contributo e, rinarrandolo, riusciamo a dare valore anche a delle piccole azioni fatte inconsapevolmente. È a posteriori che riusciamo a guardare con uno sguardo diverso il periodo appena vissuto. Prova a rispondere a questa domanda: Riguardando a posteriori un periodo di crisi che hai vissuto, da cosa ti ha permesso di “rompere”? Una crisi ci segnala che qualcosa che stavamo facendo o come lo stavamo facendo non è più adatto: una crisi evolutiva, una crisi in una relazione, una crisi lavorativa, una crisi esistenziale… È come se le strategie che abbiamo messo in atto fino a questo momento non fossero più funzionali per il presente e per il futuro. Metterle in discussione ci fa sentire spaesati, persi, senza punti di riferimento (quante volte ci è capitato di restare in situazioni faticose ma almeno note?). In realtà, la crisi ci richiede un cambiamento ma, allo stesso tempo, è già di per sé segnale che qualcosa è cambiato. Prova allora a chiederti: Cosa posso fare di diverso, per far andare avanti le cose in modo diverso? Se stai vivendo un periodo di crisi e vuoi capire come affrontarla, contattami per un primo colloquio gratuito.
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Secondo la Psicologia Positiva le emozioni piacevoli possono essere utili di fronte alle avversità perché FACILITANO la capacità di RIPRENDERSI. Infatti le emozioni piacevoli hanno effetti sia PREVENTIVI che TERAPEUTICI per il nostro benessere. Esse contribuiscono ad aumentare le nostre RISORSE a lungo termine, AMPLIANDO le potenzialità cognitive, ALLARGANDO le azioni di repertorio e costruendo delle vere e proprie risorse di sopravvivenza. E possono influenzare e MODIFICARE gli effetti negativi delle emozioni spiacevoli, agendo come una sorta di ANTIDOTO in grado di neutralizzarne e lenirne le conseguenze stressanti e ristabilendo livelli di attivazione più MODERATI. Per parlare di felicità, ho pensato di proporvi alcuni spunti presi dal libro "Istruzioni per rendersi infelici" di Paul Watzlawick". Egli sostiene che uno dei passi fondamentali per assicurarsi l’infelicità è la resistenza al cambiamento: come si può fare? 1.Sii fedele a te stesso, sempre e comunque. Cosa significa? Che bisogna credere fortemente che esiste un unico punto di vista valido e che questo sia il nostro. Fai attenzione a non rischiare di cadere nel tranello dei facili consigli, dovrai rifiutare ogni possibile indicazione su come si dovrà vivere, perché se ascoltiamo il parere altrui rischiamo di perdere coerenza (anche se questo può essere nel nostro interesse). Sii fedele anche alle strategie che in un imprecisato passato furono per te efficaci, se sono state utili allora lo dovranno essere anche ora, per forza. E se nel presente non funziona, è ovvio che non è la soluzione a essere sbagliata, sei tu che non ti sei sufficientemente applicato. Non credere all’idea che “Essere maturi significa saper fare ciò che è giusto anche se sono i genitori ad averlo vivamente consigliato” 2.Sii legato al tuo passato. Solo lì sta l’origine dei tuoi problemi e tutto ciò che fai ora è inutile, è troppo tardi. Dovevi pensarci prima, dovevi saperlo allora che ciò che facevi era sbagliato, ora sei solo vittima del tuo sbaglio, ora non puoi fare nient’altro che subire le conseguenze delle tue scelte sbagliate del passato, ora non hai più potere. 3.Evita attivamente ciò che vuoi evitare finché esso non si realizza. Detto in altri termini, la profezia che si autoavvera. Se hai una aspettativa, una preoccupazione, una convinzione o un sospetto che le cose andranno in un certo modo (possibilmente in negativo), se credi che essa sia non solo un’idea ma una realtà incombente, stai pur certo che prima o poi capiterà qualcosa che confermerà questa tua convinzione. Ad esempio, se pensi che gli altri parleranno male di te, e per questo diventi diffidente nei confronti del prossimo, stai pur certo che prima o poi accadrà qualcosa che confermerà questa tua convinzione e che quindi ti darà ragione. Mi raccomando, non dubitare: non sarà il tuo atteggiamento diffidente ad alimentare il comportamento sospettoso degli altri! 4.Scegli delle mete straordinariamente elevate. Arrivare significa raggiungere una meta, è il criterio di misura per il successo, il potere, l’approvazione, il rispetto per se stessi. Se la meta è molto lontana, avrai ancora più successo, potere, approvazione, rispetto per te stesso. E se ci metti tanto a prepararti per il viaggio, perché i preparativi sono complessi e richiedono molto tempo, o se ti perdessi per strada o facessi lunghe soste, nessuno ti può dire niente, nessuno ti potrebbe rimproverare o criticare. E poi, alla fine, Herman Hesse diceva “ogni realtà annienta il sogno”… forse, è meglio non arrivare, perché lo scopo non ancora raggiunto non è più desiderabile (ma questo non confidarlo agli altri). Ora che siamo già a metà strada sulla via dell’infelicità, ci verrà molto più facile non cadere nel rischio di trovare la felicità nella coppia. Se però c’è ancora la speranza che nella coppia ci salveremo, ecco alcune istruzioni per smentire tale speranza: 1.Sii fedele alle tue esperienze passate. Ovvero, se soffri per la fine di una relazione d’amore e hai dei ripensamenti, hai ragione. Perché se la perdita della persona amata ti addolora così tanto, che gioia sarà il ritrovarsi! Non credere a chi ti ricorda che la relazione non andava bene già da tempo e che nel mentre di quella relazione spesse volte ti sei chiesto come uscirne. Non credere che la separazione sia il male minore. Fidati, questa volta un ricominciare da capo porterà sicuramente a un risultato magnifico. E allora stai chiuso in casa, vicino al telefono, in attesa del suo ritorno. E se ciò non accade, cercati un partner identico al precedente. 2.Dubita di chi ti ama. Se trovi qualcuno che dice di amarti, non fidarti. Perché ti ama? Non ti saprebbe rispondere. O se ti risponde, la risposta non sarà mai ciò che potevi immaginarti (quindi era meglio non sapere). Ancor di più se ti ritieni immeritevole di amore, l’amore ricevuto sarà per forza una fregatura perché sicuramente chi ama qualcuno che non merita amore ha qualcosa che non funziona nella sua vita interiore, credimi. 3.Resta fermo dove sei. Se malauguratamente sei riuscito a trovare la persona giusta, mi raccomando fai in modo che nessuno dei due cambi per non scombinare l’equilibrio che avete creato. Ad esempio, se sei la famosa “crocerossina” che cerca nell’altro il partner da salvare, è ovvio che alla fine l’altro dovrà sempre essere bisognoso del tuo aiuto, altrimenti finirebbe il tuo ruolo nella (e la) coppia. E viceversa (perché l’incastro è sempre a doppio senso), se sei convinto di essere debole, avrai per forza bisogno accanto a te di un partner forte. Ma guai a cambiare idea su di te, rischieresti di far saltare la coppia. Ok, siamo arrivati al punto dolente: siamo per forza immersi nelle relazioni (di coppia, tra pari, genitori-figli…). E nelle relazioni diventa più facile che qualcuno ci persuada a andare sulla via della felicità. Non preoccupatevi, ecco dei trucchetti per mettere in crisi le relazioni: 1.Gioca solo a somma zero. Se uno vince, l’altro perde. Non ci sono giochi a somma diversa da zero. Se la vincita è avere ragione, la perdita è l’errore dell’altro. Non ci sono alternative, non è possibile che si possa vincere insieme, devi battere il partner per non essere battuto. 2.Convinciti che è sempre colpa sua. Parti da un problema (es. “mi serve un martello e lo devo chiedere al vicino”), fatti venire un dubbio circa la possibilità di ottenere l’aiuto (“e se non me lo vuole dare?”) fai una serie di riflessioni in cui man mano l’altro assume un ruolo sempre più decisivo e negativo (“il vicino ieri non mi ha salutato, ce l’aveva con me, io il favore lo farei, lui no, gente come lui rovina l’esistenza agli altri, poi magari pensa che avrò bisogno di lui”) e solo alla fine includi l’altro inconsapevole, accusandolo (vado dal vicino e gli dico “tienitelo tu il martello”). Non è poi così difficile questo esercizio, vero? A quanti di noi non è già capitato almeno una volta? Con un partner, con un amico, con il datore di lavoro, ma anche con ostili potenze superiori. Pensa, basta un dubbio e dopo una catena immaginaria di pensieri l’altro diventerà il responsabile di tutti i tuoi mali. 3.Sii chiaroveggente sui pensieri o le emozioni dell’altro e insinua il dubbio. Si tratta di un particolare modo di fare domande all’altro che lo mettono in scacco matto. Degli esempi: “perché sei arrabbiato con me?” questa domanda sottintende che l’altro sia arrabbiato anche se non lo è, come se chi lo dice conoscesse meglio ciò che prova o che pensa. Stai pur certo che a questo punto l’altro anche una minima rabbia inizia a provarla e così la risposta “non sono affatto arrabbiato” suonerà sicuramente falsa. E tu hai vinto. Fai dei rimproveri forti ma vaghi e quando il partner ti chiede di spiegare meglio rispondi: “se tu non fossi la persona che sei, non avresti neanche il bisogno di chiedermelo. Il fatto che tu non sappia neanche di cosa stia parlando dimostra che tipo tu sei”. Scacco matto. Dai al partner due alternative, quando ne sceglierà una accusalo di non aver scelto l’altra: “ti ho comprato due magliette. Quale metti? Ah, quindi l’altra non ti piace?” ed ecco che la manipolazione è in atto. Chiedi una rassicurazione e mettila subito in dubbio con una rassicurazione maggiore: “mi ami? Sì! Veramente? Sì! Veramente? Sì… ma veramente veramente?” 4.Obbliga alla spontaneità. Ovvero proponi all’altro un paradosso (tipo “non pensare al cavallo bianco di Napoleone”) e stai pur certo che l’altro non ti accontenterà mai. Questo punto va benissimo nelle relazioni genitori-figli, due esempi: “Devi fare i compiti volentieri!” ovvero, il tuo dovere deve farti piacere, e se non ci riesci ci deve essere qualcosa che non va, nel mondo o in se stessi. Ma siccome più si è piccoli meno si mette in discussione il mondo, la conclusione sarà che sono io che ho qualcosa che non va e che quindi è colpa mia. “Vai in camera tua finchè non ti sarà tornato il buonumore” ed ecco che, con un po’ di buona volontà, il figlio riuscirà a tornare allegro. Non ci riesce? Allora è colpa sua. E anche se si sente in colpa è colpa sua, perché non è una persona migliore o perché non ha ascoltato il genitore (o non è stato riconoscente di tutto ciò che i genitori fanno per lui). Paul Watzlawick afferma: “Cosa saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è dolorosamente necessaria”. Ma se tutte queste strategie ancora non vi hanno convinto, allora forse ha ragione Dostoevskij: “L’uomo è infelice perché non sa di essere felice. Chi lo comprende, sarà subito felice”. Ho scelto, come parola chiave legata all'emozione della gioia, la parola CONDIVISIONE, perchè le emozioni piacevoli, a differenza di quelle spiacevoli, ci spingono all'apertura e a essere più disponibili verso l'altro. La condivisione è la possibilità di creare uno scambio consapevole e costruttivo di risorse comuni o parti di sè. Parte dalla STIMA reciproca e dalla fiducia che si nutre nei confronti dell'altro. Richiede APERTURA nei confronti dell'altro, che porta all'ascolto e alla collaborazione. Permette di essere in CONNESSIONE con gli altri e non sentirsi soli. A proposito di felicità, vi consiglio un libro e un cortometraggio.
Il libro "Il venditore di felicità" parla di un paradosso: è possibile vendere la felicità? Un po' come dicevamo prima, è possibile costringere a provare una emozione? Che poi, alla fine, ciò che ci rende felici è vendibile? Il cortometraggio "Alike" è un invito ad impegnarsi a mantenere viva dentro di noi la nostra parte vitale, per non permettere ai doveri della vita di "scolorirci". Lo trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=PDHIyrfMl_U La paura è la più antica delle emozioni e funziona da millenni. Infatti, saper riconoscere il pericolo è una risorsa da sempre preziosa per SOPRAVVIVERE, anche se, col tempo, le minacce e i pericoli sono cambiati. La paura non è semplicemente una istintiva risposta a un pericolo, ma è il modo utilizzato dalle persone per RELAZIONARSI all'ambiente ed esplorarlo, contenendo i rischi. Avere paura è una reazione SALUTARE che ci prepara all'azione. Può capitare di confondere paura e pericolo: la paura è qualcosa di INTERNO a noi, è il nostro regolatore interno per rispondere a un aggressore esterno. Per questo, non dobbiamo LIBERARCI delle nostre paure altrimenti non saremo più in grado di PREVEDERE e FAR FRONTE al pericolo. Il pericolo della paura è che possiamo perderne il controllo, sentendoci impreparati per affrontare la situazione problematica. In questi casi, si tratta di analizzare COME FUNZIONA il nostro sistema della paura per renderlo più FLESSIBILE e per porlo sotto il nostro controllo. Serve CORAGGIO ad avere paura: essa ci ricorda che siamo VULNERABILI e ATTACCABILI, che non siamo impermeabili agli altri e ci fa fare i conti con la possibilità di soffrire. Come si può fare per diventare "amici" della propria paura? Inizia a dirti che puoi provare paura: per capire cosa ti sta succedendo, cosa sta minacciando la tua sicurezza e prepararti ad affrontare il pericolo nel modo strategicamente più efficace. Dirsi che non serve avere paura o che non c'è pericolo non serve: per poterci credere, dobbiamo sperimentarlo. Si pensa che la paura sia da evitare: più si è liberi da paure, più si è forti e in grado di affrontare gli ostacoli della vita. In realtà, è grazie alla paura che riusciamo ad affrontare i pericoli in modo adeguato. --> Prova a fare questo: riconosci i segnali (cambiamenti del corpo, pensieri, azioni) che ti fanno capire che stai provando paura e i pregiudizi che ti portano a negarla. Ascolta il tuo primitivo sistema della paura, perché esso mette in atto in automatico risposte che in qualche occasione sono state utili. Eccone alcune: evitare il pericolo, bloccarsi, sentirsi impotente, reagire, reagire aggredendo, sottomettersi, contestualizzare, sdrammatizzare. Riconosci il tuo livello di attivazione: possiamo essere più o meno sensibili o assuefatti alle situazioni di pericolo. Provare paura non è piacevole, ma non bisogna confondere il pericolo con la reazione di paura: il primo è da sconfiggere, la seconda è da ascoltare! --> Prova a fare questo: trova almeno 3 diverse modalità di reazione che hai utilizzato di fronte a situazioni di pericolo. Che cosa ti hanno permesso di fare? Non limitarti a reagire, puoi diventare attore delle tue emozioni. Attraverso l'esperienza, possiamo modificare la nostra valutazione del pericolo e la risposta emotiva, rendendo variabile e flessibile il nostro sistema di reazione della paura. La paura può inibire e paralizzare ma anche motivare all'azione: non ci sono risposte giuste o sbagliate, ma la strategia più efficace è la flessibilità nell'utilizzo di tutte le possibili reazioni della paura. --> Prova a fare questo: scegli una piccola situazione che ti spaventa e mettiti alla prova con una strategia di reazione diversa dal solito. Come ti sei sentito? Ansia e paura sono reazioni sane e utili a situazioni dannose o potenzialmente pericolose, perché ci preparano ad affrontarle. Può capitare però che ci sia un irrigidimento nel funzionamento del sistema della paura, creando disagio e sofferenza. In questi casi, puoi chiedere l'aiuto di un esperto per recuperarne la flessibilità e il controllo della tua vita. Ricorda!Ansia e paura sono reazioni sane e utili a situazioni dannose o potenzialmente pericolose, perché ci preparano ad affrontarle. Può capitare però che ci sia un irrigidimento nel funzionamento del sistema della paura, creando disagio e sofferenza. In questi casi, puoi chiedere l'aiuto di un esperto per recuperarne la flessibilità e il controllo della tua vita. Ho scelto di approfondire, come parola chiave legata alla paura, la parola CAPACITA'. La capacità è l'abilità, già presente, di fare qualche cosa, di svolgere una funzione, di riuscire nella realizzazione di un compito. Parte dall'ESPERIENZA, dalla possibilità di mettersi alla prova ed eventualmente correggere le mancanze. Richiede FIDUCIA, da parte di se stessi e degli altri, nella possibilità di riuscire. Permette di sentirsi FORTI e in grado di affrontare le situazioni. La capacità è diversa dalla POTENZIALITA': sentirsi capaci vuol dire sapere di avere già le risorse per affrontare le situazioni, pensare di avere potenzialità crea l'aspettativa della riuscita, ma non si ha la certezza. E' una motivazione all'azione, ma, soprattutto con i bambini, rischia di alimentare la paura di non riuscire e quindi il blocco. Per concludere, vi consiglio un cortometraggio e un libro che parlano di paura e capacità:
Nel libro "Ce la posso fare" si parla di obiettivi e mete, motivazione e sostegno. Nel cortometraggio "Piper" si parla di crescita e di come la fiducia dei genitori nelle capacità del figlio, con un pizzico di coraggio nel fargli provare le giuste frustrazioni, aiuti il piccolo uccellino a tirare fuori le sue risorse per affrontare le sfide della vita. Lo trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=vPuRBiBCxyk&t=9s Secondo la teoria dell’attaccamento la tristezza è un’emozione fondamentale per la sopravvivenza. Infatti, essa ci permette di ritirarci a scopo protettivo e difensivo, in preparazione a un cambiamento. Essa nasce quando un desiderio si incontra con una mancanza (di una relazione, di una situazione passata, di una parte di noi). Quando un desiderio si scontra con una nostra mancanza, sentiamo si non essere in grado di rendere reale una situazione che desideriamo fortemente a causa di limiti esterni o interni: a quel punto si insinua dentro di noi un senso di vuoto. La tristezza serve per poter elaborare l’evento spiacevole, la perdita, la mancanza. Permette di allontanarci dal mondo esterno e di occuparci di noi e del senso di vuoto che stiamo provando. Il senso di vuoto ci spinge a cercare di riempirlo come reazione naturale di spinta verso il nostro futuro. Serve per poter elaborare l’evento spiacevole, la perdita. Se riconosciuta e accolta ha un’azione riparatoria e innovatrice, perché attiva per trovare una soluzione. Fa nascere lo spazio per un nuovo bisogno o un nuovo desiderio, è uno stimolo per il cambiamento. Se riconosciuta e accolta, ha un’azione riparatoria e innovatrice, perché attiva per trovare una soluzione, come effetto della spinta naturale che abbiamo verso il futuro. È anticipatoria e stimolo per il cambiamento. Ci pone di fronte a un limite, ma anche a una consapevolezza che viviamo come vuoto, dal quale può nascere lo spazio per un nuovo bisogno o un nuovo desiderio. Accoglila e ascoltala: concediti la possibilità di essere triste, non sminuire o sdrammatizzare ciò che stai provando (e non farlo fare agli altri). È normale e hai diritto di sentirti triste. Concediti il tempo necessario, non avere fretta di liberartene. (cosa non fare: negare, compensare, sognare ad occhi aperti e facendo svanire i problemi). Spesso temiamo di lasciarci andare alla tristezza per paura di non riuscire più a "risalire". Ma più tentiamo di resistere, più la nostra tristezza ci rincorrerà e si farà sentire in altri modi. --> Prova a fare questo: scegli un luogo e una posizione che ti fanno sentire a tuo agio e ascolta i segnali del corpo. Esprimila e dalle senso: dai libero sfogo alla tua emozione (piangi, disperati, ascolta canzoni tristi, non fare nulla, isolati, prenditi tempo). Essa si esprime anche attraverso la tua postura, fai caso al tuo corpo. Scrivila, disegnala, parlane: racconta ciò che stai provando, dalle una forma. Prova a capire cosa ti sta dicendo, cosa ti manca, di cosa hai bisogno. La narrazione aiuta a dare senso e contenere ciò che nella nostra mente potrebbe sembrare confuso e indefinito. Non serve a mandarla via, ma a farci pace, ad accettarla, a capirla. --> Prova a fare questo: scriviti una lettera come se la stesse scrivendo la tua Tristezza. Cosa ti dice? Di cosa ha bisogno? Cosa vuole da te? Trasformala e falla andare: quando il picco è passato, “dwelling” cioè non esagerarla e non coltivarla oltre il necessario, torna in contatto con la tua forza. Guarda anche le altre emozioni che puoi provare, stai provando o hai provato. Mettiti in moto, e dedicati ad attività. Senti in quale nuovo bisogno o desiderio si è trasformata. La tristezza, come tutte le emozioni, ha un inizio, una evoluzione e una fine. A volte scompare improvvisamente, altre volte ci richiede di fare uno sforzo in più per poterla far andare. Abbiamo bisogno di viverla per conoscere i suoi segnali. --> Prova a fare questo: scegli un rituale da fare per salutare la tua tristezza. Ricorda! E' normale avere momenti di tristezza, sentirsi giù di corda o con poca voglia di fare, lo viviamo tutti. Ma quando sentiamo che questa emozione si sta impossessando di noi, quando diventa difficile da gestire, quando ci sembra di perdere il controllo e di non risalire più, può essere sintomo di una sofferenza più profonda. In questi casi, puoi chiedere l'aiuto di un esperto per dare spazio e ascolto a quel dolore e recuperare il controllo della tua vita. Una parola chiave legata alla tristezza è ADATTAMENTO. L'adattamento è una variazione del comportamento che va incontro alle domande dell'ambiente. Parte da un CAMBIAMENTO, una discontinuità rispetto al passato. Richiede una CONSAPEVOLEZZA di ciò che non c'è più, per prepararsi al nuovo. Permette l'ACCETTAZIONE della realtà per far emergere nuove capacità. "Nonna, come si fa a mandare via la tristezza?" "Prima lavala con le tue preziose lacrime. Finché non ne hai più. Quando l'hai toccata completamente con la tua medicina salata inizia a lavare anche i tuoi panni. A mano, come si faceva una volta. Tocca ogni impurità dei tuoi abiti e con determinazione, pazienza e del buon sapone affronta le macchie. Riconoscile e poi liberati di esse. Con gratitudine, per il grande lavoro interiore che ti stanno portando a compiere." "E la tristezza se ne andrà?" "Non ancora. Perché non avrà completato la missione che è giunta a realizzare. Fai asciugare con calma ogni tua lacrima, percepisci le ultime scorrere sul tuo viso, abbandonati a questo stato di svuotamento. Poi stendi i tuoi panni uno ad uno, falli asciugare al sole e al vento. E goditi lo spettacolo di vederli pian piano ritornare asciutti, rinnovati, puliti e rigenerati. I tuoi panni rappresentano i tuoi abiti interiori, le parti di te che hanno bisogno di essere cambiate, pulite, purificate." "La tristezza giunge per portarci ad una purificazione?" "Si, bambina mia. Pensa alla tristezza portata dalla pioggia che tutto bagna e pulisce. Solo per portare guarigione. Per porre rimedio alla secchezza, alla sete, all'aria stantia. La tristezza è come una dea che ti vuole innalzare. Quando arriva dedicale un altare e stai ad osservare il maremoto che fa nascere in te. E' proprio in quella cascata interna che troverai il potere in grado di illuminarti la via." E. Bernabè L’educazione all’ascolto delle emozioni parte da piccoli. Parlare con i bambini di ciò che si prova li renderà adulti non spaventati del loro mondo interiore. Per farlo, vi consiglio il libro “Tristezza non mi fai paura”, che è un invito all’accoglienza della nostra emozione.
Per affrontare invece il tema della tristezza legata al cambiamento, vi consiglio il cortometraggio “Bao”, che parla della fatica di accettare il naturale cambiamento della vita e il tentativo di sostituire ciò che ci manca per non fermarci a sentire il dolore di quell’assenza. Secondo la psicologia dello sviluppo CRESCERE è di per sé un atto aggressivo. Infatti AGGRESSIVITA' significa "vado verso" ed è spesso associata alla rabbia perché quest'ultima è l'emozione che ci segnala uno STOP nel nostro cammino. La rabbia è un’emozione e come tale ha sempre SENSO. E' diversa dai comportamenti messi in atto per esprimerla, che invece possono essere adeguati o inadeguati. È un meccanismo di PROTEZIONE che ci segnala che qualcosa non va come vorremmo. Essa esprime ingiustizia, insoddisfazione, frustrazione. Alla base c’è quindi un DOLORE. Se non ascoltata, ci fa sentire BLOCCATI, disarmati, impotenti ed essa uscirà comunque in altre forme meno adeguate. Come tutte le emozioni, anche la rabbia, se viene ascoltata e presa in considerazione, ci LIBERA e poi se ne va per lasciare spazio a qualcosa di NUOVO. Come si può fare per gestire la rabbia ed evitare che essa sfoci in agiti inadeguati? Prima di tutto RICONOSCI di essere arrabbiato! Poi puoi respirare, prendere una pausa, allontanarti dalla situazione anche mentalmente, sfogarti con una attività fisica... per fermarti dal REAGIRE. Ascoltare la rabbia, nostra o altrui, può essere utile per EVOLVERE, perché permette di cercare un modo diverso per affrontare i nostri problemi. --> Pensa a una situazione dove hai provato rabbia. Se dovessi descrivere quella esperienza, che parole useresti? Completa la frase: "sono arrabbiato perchè..." Prova a distinguere tra ciò che ha stimolato la tua rabbia (situazione/persona) e la CAUSA della TUA rabbia (sei tu il responsabile dei tuoi stati mentali!). Ascoltala e dai voce ai PENSIERI che ti fanno arrabbiare. Riconosci alla rabbia il ruolo di campanello di allarme: quale BISOGNO non è stato ascoltato?A quale bisogno non ascoltato sono connessi quei pensieri? Non possiamo negare, zittire o annullare la nostra rabbia, ma possiamo imparare a conoscerla e a esprimerla in modo più efficace. --> Riguarda la frase che hai scritto prima, come potresti tradurla per esplicitare il tuo bisogno insoddisfatto? Completa la frase: "avevo bisogno che ...." Prova a trovare possibili SOLUZIONI per risolvere il problema (o per accettare la situazione se non è in tuo potere modificarla). Chiediti che cosa PUOI FARE TU per superare la situazione, cosa puoi cambiare, cosa è in tuo potere fare per soddisfare il tuo bisogno. Spesso siamo spaventati dalla rabbia e dalle sue manifestazioni, dimenticando che la rabbia, come tutte le emozioni, ha un inizio, una evoluzione e una fine. Abbiamo solo bisogno di arrabbiarci più volte nel modo sbagliato per poter imparare ad arrabbiarci nel modo più efficace. --> Ripensa all'esperienza in cui hai provato rabbia: riesci a trovare un insegnamento, un aspetto di novità nella conoscenza di te che è emerso grazie a quella esperienza? Completa la frase: "Grazie a questa situazione ho scoperto..." E' normale sentirsi arrabbiati, la rabbia è una emozione che proviamo tutti. Ma quando sentiamo che questa emozione si sta impossessando di noi, quando diventa difficile da gestire, quando ci fa esplodere senza capacità di controllo, può essere il sintomo di un sofferenza più profonda. In questi casi, puoi chiedere l'aiuto di un esperto per dare spazio e ascolto a quel dolore e recuperare il controllo della tua vita. La parola chiave legata al tema della rabbia è: RESPONSABILITA' Responsabilità significa abilità di dare risposte, cioè sapere che le nostre azioni possono avere determinati effetti. Richiede SENSO DI REALTA’, per capire cosa va fatto e cosa va evitato. E’ diverso dalla COLPA perché è esente da meriti, punizioni, giustizia, giudizio. Prendersi o attribuire all'esterno la colpa non aiuta a sentirsi attivi nelle proprie azioni, ma può avere l'effetto di sminuire se stessi ("E' colpa mia, sbaglio sempre!") o di decolpevolizzarsi ("E' colpa degli altri se non ottengo ciò che voglio"). In entrambi i casi, ci si pone in una posizione di impotenza e passività. La responsabilità, invece, permette di avere POTERE PERSONALE e controllo su di sé e sulle proprie scelte, per sentirsi capaci di agire. La citazione qui sopra va proprio in questa direzione: quando non otteniamo ciò che vogliamo, ciò di cui abbiamo bisogno, abbiamo due possibilità: restare nell'insoddisfazione, attribuendo la colpa all'esterno, oppure prendere la responsabilità delle nostre scelte e cambiare direzione. “Bisogna che ognuno di noi si assuma la responsabilità. Non possiamo cambiare le circostanze, le stagioni o come soffia il vento, ma possiamo cambiare noi stessi. E’ qualcosa che dobbiamo riuscire a fare “. J. Rohn Il libro “che rabbia!” di solito lo consiglio ai genitori, più che ai bambini, per comprendere che a volte, per far andare via la rabbia bisogna guardare cosa c’è sotto, senza farsi prendere dall’ansia o dalla fretta, che generalmente porta ad attivare un’escalation simmetrica poco produttiva. E' un allenamento alla pazienza!
Il cortometraggio “Lou” va sulla stessa lunghezza d’onda, cioè racconta che la rabbia ha spesso un origine di dolore. Solo nel momento in cui si ascolta quel dolore, essa non ha più motivo di esistere. Lo puoi trovare qui: https://www.youtube.com/watch?v=8hgNwjTLMRw Secondo le teorie motivazionali (ad esempio secondo la teoria dei bisogni di Maslow), l'autorealizzazione è uno dei bisogni di crescita più importanti.
I bisogni, spesso connotati negativamente come mancanze, sono in realtà degli stimoli per l'azione, una forte motivazione alla vita e all'appagamento. Essi si possono dividere in tre tipologie: - bisogni vitali fisiologici (respiro, alimentazione, sonno, sesso, omeostasi) -bisogni di sicurezza e appartenenza (avere una famiglia, una casa, un lavoro, la salute, l'affetto familiare, le amicizie, l'intimità sessuale, ecc.) - bisogni di realizzazione (bisogno di stima, autocontrollo, rispetto, autocontrollo e contributo alla vita). Il bisogno di autorealizzazione è inteso come il far crescere ciò che realmente siamo, avvicinandoci al nostro sè ideale. Questo vuol dire che per sentirci completamente realizzati non abbiamo bisogno del successo di per sè, ma di poter sentire di essere il più vicino possibile a ciò che siamo e vorremmo essere, ovvero in contatto con la nostra parte più autentica. Come fare per soddisfare tale bisogno? - fermiamoci per ascoltarci: ascoltare come stiamo, cosa ci sta accadendo, quali emozioni stiamo provando. Senza giudicarci, ma solo con uno sguardo di curiosità e di ascolto, per conoscerci. Da qui potremo scoprire di cosa abbiamo realmente bisogno in questo momento. Facciamo attenzione a non confondere il bisogno con il desiderio: il desiderio è un tentativo di soddisfare un bisogno. Attenzione anche alla reale natura del bisogno: esso deve andare nella direzione della vita e nell'allontanamento dalla sofferenza (ad esempio, il "bisogno di vendetta" quando qualcuno ci fa del male non è un reale bisogno! Lo è piuttosto la rassicurazione che l'altro impari da ciò che è accaduto). - Ringraziamoci per riconoscerci: per il coraggio, la forza, l’impegno che ci mettiamo nelle cose. Serve per apprezzare ciò che siamo e per vedere ciò che siamo in grado di fare. Per poterci sentire realizzati dobbiamo poterci sentire capaci e in grado di affrontare le situazioni, con un atteggiamento di riconoscimento e gratitudine verso le nostre qualità e risorse. - Rilassiamoci per accettarci: ovvero, non siamo perfetti ma va bene così! Se in ciò che facciamo ci mettiamo impegno, abbiamo dato tutto ciò che in questo momento ci è possibile dare e quindi ogni errore, imperfezione, insuccesso, limite fanno parte di noi e del nostro essere umanamente imperfetti. Questo ci libera dalla continua ricerca (fallimentare e demotivante) di essere ciò che "dovremmo" essere, per essere ciò che siamo. - Agiamo per sentirci soddisfatti e appagati di ciò che siamo, non per essere produttivi e riempire il tempo e il vuoto. Questo serve per credere che valiamo perché "esistiamo" e non per ciò che facciamo, e serve anche per liberarci dal senso di passività e impotenza, che rischia di farci dire "sono fatti così, è più forte di me", facendoci perdere completamente la padronanza di noi stessi e delle nostre possibilità. Come si può alimentare il senso di autoefficacia e di autorealizzazione? Riconoscendo ciò che siamo e facendo cose che ci permettono di avvicinarci sempre più a ciò che vorremmo essere. Ecco degli spunti più pratici per fare questo. Innanzitutto bisogna riconoscere e coltivare i propri interessi, come se fosse un vero e proprio allenamento. Non tutti infatti nasciamo già con delle passioni e degli interessi profondi, ma questo non vuol dire che siamo spacciati! Si può partire invece da una ricerca attiva di ciò che ci piace e impegnarci a perseguire i nostri interessi, e col tempo questi diventeranno più grandi e spontanei. 1. La prima fase richiede la SCOPERTA dei nostri interessi, ad esempio chiedendoci: "cosa mi sta veramente a cuore? a cosa mi piace pensare? cosa non sopporto?" E' tutta la parte che riguarda l'ascolto di sè e delle proprie emozioni. 2. La seconda fase è quella più "tecnica", nel senso che una volta individuate le aree di interesse bisogna attivarsi costantemente e rigorosamente, come un vero e proprio allenamento, per accumulare esperienze e pratiche in quell'area di interesse. Per farlo possiamo fissarci degli obiettivi che siano SMART (Specifici, Misurabili, Assegnabili/personalizzati, Realistici, collocabili nel Tempo). 3. Passaggio dall'innamoramento all'amore. Proprio come avviene nelle relazioni sentimentali, anche per i nostri interessi e passioni la fase iniziale di entusiasmo, attivazione, innamoramento prima o poi finisce ma questo non vuol dire che è finito l'amore, anzi è l'occasione per trasformarlo in qualcosa di più profondo, una parte di noi. Ogni evento che accade nella nostra quotidianità ci richiede di utilizzare una certa dose di energia per farvi fronte: quando ci svegliamo, lavoriamo, studiamo, parliamo, il nostro cervello si attiva per svolgere quella attività, producendo delle reazioni a livello fisico ed emotivo. I livelli di attivazione possono variare a seconda della situazione. Se dovessimo immaginare la nostra linea di attivazione, essa sarebbe una continua linea ondulata irregolare. Nella quotidianità, le attivazioni rientrano in uno spazio delimitato che Daniel Siegel chiama "finestra di tolleranza" perchè racchiude attivazioni che ci permettono di mantenere uno stato di controllo, che riusciamo a tollerare. Ci sentiamo al sicuro, padroni della situazione, capaci e presenti in quello che stiamo facendo. Quando invece ci accadono degli imprevisti o delle situazioni che ci fanno sentire in pericolo, la nostra attivazione potrebbe uscire da quell'area ottimale e farci andare fuori controllo (graficamente, si vedrebbero dei picchi di onde in su o in giù). In tal caso, possono presentarsi due condizioni: una IPER attivazione, cioè ci sentiamo troppo attivati. Ci sentiamo agitati, ansiosi, nervosi; potremmo iniziare a fare cose senza riuscire a fermarci, proviamo emozioni intense. Come reazione, potremmo essere spesso irritati, sentire il desiderio di isolarci per allontanarci da situazioni troppo stressanti, oppure paralizzarci. La seconda condizione fuori controllo è una IPO attivazione, cioè ci sentiamo troppo poco attivati. In questo caso, diventiamo apatici, stanchi, spenti. Non abbiamo voglia di fare nulla, proviamo tristezza e disperazione, potremmo chiuderci e ritirarci in noi stessi. Iperattivazione e ipoattivazione sono quindi due forme di disregolazione emotiva, cioè situazioni in cui non siamo in grado di gestire le emozioni scatenate. La finestra di tolleranza non è fissa e stabile, ma si può ampliare con l'allenamento, entrando in contatto con le nostre emozioni, imparando a conoscerle, riconoscerle e quindi gestirle in modo più funzionale. Si può, ad esempio, partire dal riconoscimento di quella che attualmente è la nostra finestra di tolleranza, cioè quando e con quali emozioni ci sentiamo sicuri, a nostro agio, padroni della situazione. Partendo da qui, si possono individuare quali sono i segnali che ci stanno facendo avvicinare ai limiti di tale finestra, portandoci su o giù, a partire dalle modificazioni nelle sensazioni corporee (es. respiro, battito del cuore, tensioni, ecc.). Si può quindi risalire alle situazioni che ci scatenano tali sensazioni e alle emozioni che stiamo provando. Nel momento in cui sentiamo che ci stiamo allontanando dalla nostra attivazione ottimale, è fondamentale recuperare il controllo di noi e della situazione, tornando nel qui e ora e in contatto con il nostro corpo. Siegel chiama MASTERY le strategie che aiutano a rientrare nella finestra di tolleranza, ovvero recuperare la sensazione di avere controllo della propria vita e delle proprie emozioni (calmarsi se iperattivati o attivarsi se ipoattivati). Tra le strategie di regolazione emotiva rientrano: - il contatto sociale: poter parlare con qualcuno di ciò che sta accadendo, sfogarsi, confrontarsi e comprendere le nostre emozioni è fondamentale per potersi conoscere meglio e diventare padroni di sè (ad esempio, con la psicoterapia); - le tecniche psico-corporee per tornare nel qui e ora e recuperare il controllo delle sensazioni fisiche; - la consapevolezza delle proprie risorse, interne ed esterne, del passato e del presente, che ci permettono di sentirci capaci di far fronte alle situazioni. Qui di seguito vi riporto alcune tecniche proposte dalla psicoterapeuta Maria Puliatti, terapeuta sensomotoria ed esperta di psicotraumatologia, utili quando sentiamo di sentirci particolarmente agitati o ipotonici, perchè ci aiutano a tornare nel qui e ora e a recuperare senso di padronanza. Vi consiglio anche di guardare il percorso "Sei paia di occhiali per allenare il benessere", in particolare l'allenamento degli occhiali rossi dove si parla di emozioni e degli occhiali gialli dove si parla di risorse. Se vi sentite sopraffatti dalla vostra attivazione e non riuscire a recuperare il controllo delle vostre emozioni e sensazioni, non abbiate timore a confrontarvi con uno specialista per poter capire meglio cosa sta succedendo. In un processo di cambiamento, il fallimento è una tappa indispensabile.
Il fallimento ci segnala che non avevamo preso in considerazione qualcosa che ci ha ostacolato nel percorso. Quando falliamo, tutto il pezzo fatto fino a qui fa già parte di noi. Non ha senso (ed è impossibile) ricominciare da capo. Per difenderci ci può capitare di negare, discolparci (dando la colpa all’esterno), diventare aggressivi (la paura e la tristezza spesso si mascherano con la rabbia), mentiamo per apparire migliori. Oppure, ci affossiamo. In questi casi, il nostro giudice interiore è all’azione per sgridarci e mortificarci (a volte, dando voce a ciò che temiamo possano pensare gli altri di noi). Il giudizio e la critica eccessivi non fanno bene a nessuno, non migliorano ma mortificano e indeboliscono. Solo se ci sentiamo capiti, compresi e accettati così come siamo (imperfetti!) allora riusciamo a reagire alle avversità. Ecco una proposta di esercizi che puoi fare per ammorbidire il tuo giudice interiore: 1. Ascolta cosa ti dici, facci caso: quali parole e frasi ricorrenti usi per criticarti, con quale tono, con quale messaggio su di te. Prova a pensare se questa voce interiore ti ricorda qualcuno che in passato ti criticava proprio allo stesso modo (forse allora quella voce è sua e non tua, restituiscigliela!) 2. Parla con il tuo giudice interiore, ringrazialo per la sua presenza ma digli (non gentilezza!) che non ti è utile così. Mostragli in che modo le sue parole possono esserti utili: riformula i suoi giudizi contestualizzandoli e prova a capire cosa puoi fare per migliorare. 3. A volte, ci viene più facile essere più comprensivi con gli altri e meno con noi: prendiamo esempio dal modo in cui trattiamo gli altri. Altre volte, ci scarichiamo meglio se trattiamo male gli altri e desideriamo che gli altri ci comprendano: facciamo agli altri quello che vorremmo ricevere noi. Per saperne di più sul pensiero critico guarda "Un paio di occhiali neri" del progetto "Sei paia di occhiali per allenare il benessere". I bambini lo fanno spontaneamente, da subito: piangono, protestano, assillano per ottenere ciò che vogliono, chiedono mille volte perché per conoscere e capire il mondo che li circonda, chiedono se possono fare qualcosa per potersi mettere in gioco e sentire utili e capaci.
Poi si cresce, si impara a diventare autonomi, si deve diventare autonomi e se chiedi una mano puoi iniziare a ricevere dei rifiuti. Non solo, delle squalifiche: “insomma, non posso mica sempre esserci io ad aiutarti, sei grande, devi cavartela da solo”. E così si apprende che crescere, diventare grandi, vuol dire diventare indipendenti ma anche soli. In realtà, autonomia vuol dire sì essere capaci di fare le cose per proprio conto, ma non toglie uno dei bisogni e delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano: siamo animali sociali, siamo immersi nelle relazioni, siamo interconnessi. E questo vuol dire che possiamo appoggiarci uno sull’altro, sostenerci, dimostrarci vicinanza, amore, gratitudine. Possiamo chiedere. Quante volte quando un nostro amico o parente è in difficoltà noi diciamo “se hai bisogno sono qua, chiedi!”. Saper chiedere è utile per chi fa la richiesta, perché non ci fa sentire soli, e anche per chi la riceve: ci fa sentire utili, importanti per chi ci chiede la nostra presenza (che sia una mano, un po’ di tempo, un consiglio, un gesto di affetto). "Se lo chiede proprio a me è perché sono importante, ci tiene a me!" Perché allora ci viene così difficile chiedere? Perché siamo stati educati a non avere bisogno dell’altro, perché bisogna essere forti, capaci, integri, perfetti. Se chiedi sei debole, se chiedi mostri le tue fragilità, se chiedi ti metti in balia dell’altro. È vero, mostri le tue fragilità, i tuoi bisogni. È vero, ti metti in balia dell’altro perché gli lasci il potere di decidere se assecondare la tua richiesta oppure no. Ma non è segno di debolezza, bensì di forza e consapevolezza di sé. Se chiedo ti mostro anche chi sono io, ti dimostro la mia direzione, ti mostro i miei bisogni e cioè ti dimostro che so chi sono e che non ho paura a mostrarmi. Dimostro che ho bisogno di te, che voglio stare nella relazione con te. Ed è un grande gesto di coraggio mostrare i propri sentimenti! Cosa ci fa paura del chiedere? Tre cose: 1. che l’altro possa dirci di no! La paura del rifiuto è una delle paure più diffuse per quanto riguarda il nostro mondo sociale: sentirsi dire no non piace neanche ai bambini perché si sentono limitati e non riconosciuti. Figuriamoci da adulti! Ci sentiremmo profondamente feriti, dubiteremmo del nostro valore. Allora meglio prevenire, meglio dirci di no da soli e chiuderci in un vittimismo che ci fa sentire soli e sfiduciati nei confronti degli altri. 2. Che l’altro possa vedere il nostro lato debole e quindi rovinare la nostra immagine sociale: devo essere forte, autonomo, indipendente, praticamente perfetto. Meglio difendermi e non chiedere! 3. Che l’altro non mi conosca veramente e quindi che possa mettere in dubbio la relazione: non chiedo, ma pretendo che l’altro faccia certe cose per me, lo dovrebbe già sapere prima ancora di chiederlo! Ricordatevi: il chiedere è un atto spontaneo, anche il rispondere lo è! Sono libero di chiederti qualcosa e ti lascio la libertà della tua risposta. C’è fiducia, rispetto, gentilezza in questo scambio. Se pretendo, mi lamento, piagnucolo, faccio un capriccio tolgo la libertà, obbligo, divento arrogante, vincolo l’altro. E sicuramente ciò che riceverò sarà un rifiuto, se non alla mia richiesta sicuramente al mio bisogno di riconoscimento. Quante volte ci sarà capitato di arrivare a un certo punto e non farcela più… iniziamo a sentirci nervosi, agitati, irritati. Iniziamo a sentirci stretti dentro il ruolo, il compito o il dovere che stiamo svolgendo, iniziamo a provare frustrazione perché non vorremmo essere qui in quel momento. Iniziamo ad accusare gli altri e la situazione che ci complicano la vita o che ci costringono a fare o diventare ciò che non vogliamo.
Ecco, in tutte queste situazioni, è importante fermarsi e scegliere! Quando arriviamo a toccare il nostro limite e a crollare, vuol dire che abbiamo perso il controllo delle nostre azioni e la libertà di azione. Ci sentiamo in preda alla situazione, vittime di un sistema che non abbiamo voluto, costretti a fare ciò che più si allontana dal nostro volere. E stiamo male. In questi momenti, è importante fermarsi, perché i sentimenti che stiamo provando sono un chiaro segnale del nostro malessere. Ed è importante chiedersi dove ci siamo persi, dove abbiamo perso la libertà di scelta delle nostre azioni. Nello sviluppo, la fase dei “no” è fondamentale (infatti compare ben 2 volte durante la crescita: intorno ai 2 anni e nell’adolescenza) perché ci permette di introdurre una alternativa ai “sì”, così anziché accettare per obbligo o sottomissione, accettiamo perché lo scegliamo, perché lo vogliamo. Allo stesso modo, sapere che possiamo scegliere di continuare a fare ciò che facciamo perché abbiamo a disposizione la possibilità di smettere, rende le nostre azioni libere e volute, non obbligate o imposte. E questo ci permette di acquisire padronanza di noi stessi. Quando ci chiediamo “ma perché sto facendo questo?” possiamo:
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AutoreSono Anna Gigliarano, psicologa psicoterapeuta sistemica. Categorie
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