Secondo le teorie motivazionali (ad esempio secondo la teoria dei bisogni di Maslow), l'autorealizzazione è uno dei bisogni di crescita più importanti.
I bisogni, spesso connotati negativamente come mancanze, sono in realtà degli stimoli per l'azione, una forte motivazione alla vita e all'appagamento. Essi si possono dividere in tre tipologie: - bisogni vitali fisiologici (respiro, alimentazione, sonno, sesso, omeostasi) -bisogni di sicurezza e appartenenza (avere una famiglia, una casa, un lavoro, la salute, l'affetto familiare, le amicizie, l'intimità sessuale, ecc.) - bisogni di realizzazione (bisogno di stima, autocontrollo, rispetto, autocontrollo e contributo alla vita). Il bisogno di autorealizzazione è inteso come il far crescere ciò che realmente siamo, avvicinandoci al nostro sè ideale. Questo vuol dire che per sentirci completamente realizzati non abbiamo bisogno del successo di per sè, ma di poter sentire di essere il più vicino possibile a ciò che siamo e vorremmo essere, ovvero in contatto con la nostra parte più autentica. Come fare per soddisfare tale bisogno? - fermiamoci per ascoltarci: ascoltare come stiamo, cosa ci sta accadendo, quali emozioni stiamo provando. Senza giudicarci, ma solo con uno sguardo di curiosità e di ascolto, per conoscerci. Da qui potremo scoprire di cosa abbiamo realmente bisogno in questo momento. Facciamo attenzione a non confondere il bisogno con il desiderio: il desiderio è un tentativo di soddisfare un bisogno. Attenzione anche alla reale natura del bisogno: esso deve andare nella direzione della vita e nell'allontanamento dalla sofferenza (ad esempio, il "bisogno di vendetta" quando qualcuno ci fa del male non è un reale bisogno! Lo è piuttosto la rassicurazione che l'altro impari da ciò che è accaduto). - Ringraziamoci per riconoscerci: per il coraggio, la forza, l’impegno che ci mettiamo nelle cose. Serve per apprezzare ciò che siamo e per vedere ciò che siamo in grado di fare. Per poterci sentire realizzati dobbiamo poterci sentire capaci e in grado di affrontare le situazioni, con un atteggiamento di riconoscimento e gratitudine verso le nostre qualità e risorse. - Rilassiamoci per accettarci: ovvero, non siamo perfetti ma va bene così! Se in ciò che facciamo ci mettiamo impegno, abbiamo dato tutto ciò che in questo momento ci è possibile dare e quindi ogni errore, imperfezione, insuccesso, limite fanno parte di noi e del nostro essere umanamente imperfetti. Questo ci libera dalla continua ricerca (fallimentare e demotivante) di essere ciò che "dovremmo" essere, per essere ciò che siamo. - Agiamo per sentirci soddisfatti e appagati di ciò che siamo, non per essere produttivi e riempire il tempo e il vuoto. Questo serve per credere che valiamo perché "esistiamo" e non per ciò che facciamo, e serve anche per liberarci dal senso di passività e impotenza, che rischia di farci dire "sono fatti così, è più forte di me", facendoci perdere completamente la padronanza di noi stessi e delle nostre possibilità. Come si può alimentare il senso di autoefficacia e di autorealizzazione? Riconoscendo ciò che siamo e facendo cose che ci permettono di avvicinarci sempre più a ciò che vorremmo essere. Ecco degli spunti più pratici per fare questo. Innanzitutto bisogna riconoscere e coltivare i propri interessi, come se fosse un vero e proprio allenamento. Non tutti infatti nasciamo già con delle passioni e degli interessi profondi, ma questo non vuol dire che siamo spacciati! Si può partire invece da una ricerca attiva di ciò che ci piace e impegnarci a perseguire i nostri interessi, e col tempo questi diventeranno più grandi e spontanei. 1. La prima fase richiede la SCOPERTA dei nostri interessi, ad esempio chiedendoci: "cosa mi sta veramente a cuore? a cosa mi piace pensare? cosa non sopporto?" E' tutta la parte che riguarda l'ascolto di sè e delle proprie emozioni. 2. La seconda fase è quella più "tecnica", nel senso che una volta individuate le aree di interesse bisogna attivarsi costantemente e rigorosamente, come un vero e proprio allenamento, per accumulare esperienze e pratiche in quell'area di interesse. Per farlo possiamo fissarci degli obiettivi che siano SMART (Specifici, Misurabili, Assegnabili/personalizzati, Realistici, collocabili nel Tempo). 3. Passaggio dall'innamoramento all'amore. Proprio come avviene nelle relazioni sentimentali, anche per i nostri interessi e passioni la fase iniziale di entusiasmo, attivazione, innamoramento prima o poi finisce ma questo non vuol dire che è finito l'amore, anzi è l'occasione per trasformarlo in qualcosa di più profondo, una parte di noi.
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Ogni evento che accade nella nostra quotidianità ci richiede di utilizzare una certa dose di energia per farvi fronte: quando ci svegliamo, lavoriamo, studiamo, parliamo, il nostro cervello si attiva per svolgere quella attività, producendo delle reazioni a livello fisico ed emotivo. I livelli di attivazione possono variare a seconda della situazione. Se dovessimo immaginare la nostra linea di attivazione, essa sarebbe una continua linea ondulata irregolare. Nella quotidianità, le attivazioni rientrano in uno spazio delimitato che Daniel Siegel chiama "finestra di tolleranza" perchè racchiude attivazioni che ci permettono di mantenere uno stato di controllo, che riusciamo a tollerare. Ci sentiamo al sicuro, padroni della situazione, capaci e presenti in quello che stiamo facendo. Quando invece ci accadono degli imprevisti o delle situazioni che ci fanno sentire in pericolo, la nostra attivazione potrebbe uscire da quell'area ottimale e farci andare fuori controllo (graficamente, si vedrebbero dei picchi di onde in su o in giù). In tal caso, possono presentarsi due condizioni: una IPER attivazione, cioè ci sentiamo troppo attivati. Ci sentiamo agitati, ansiosi, nervosi; potremmo iniziare a fare cose senza riuscire a fermarci, proviamo emozioni intense. Come reazione, potremmo essere spesso irritati, sentire il desiderio di isolarci per allontanarci da situazioni troppo stressanti, oppure paralizzarci. La seconda condizione fuori controllo è una IPO attivazione, cioè ci sentiamo troppo poco attivati. In questo caso, diventiamo apatici, stanchi, spenti. Non abbiamo voglia di fare nulla, proviamo tristezza e disperazione, potremmo chiuderci e ritirarci in noi stessi. Iperattivazione e ipoattivazione sono quindi due forme di disregolazione emotiva, cioè situazioni in cui non siamo in grado di gestire le emozioni scatenate. La finestra di tolleranza non è fissa e stabile, ma si può ampliare con l'allenamento, entrando in contatto con le nostre emozioni, imparando a conoscerle, riconoscerle e quindi gestirle in modo più funzionale. Si può, ad esempio, partire dal riconoscimento di quella che attualmente è la nostra finestra di tolleranza, cioè quando e con quali emozioni ci sentiamo sicuri, a nostro agio, padroni della situazione. Partendo da qui, si possono individuare quali sono i segnali che ci stanno facendo avvicinare ai limiti di tale finestra, portandoci su o giù, a partire dalle modificazioni nelle sensazioni corporee (es. respiro, battito del cuore, tensioni, ecc.). Si può quindi risalire alle situazioni che ci scatenano tali sensazioni e alle emozioni che stiamo provando. Nel momento in cui sentiamo che ci stiamo allontanando dalla nostra attivazione ottimale, è fondamentale recuperare il controllo di noi e della situazione, tornando nel qui e ora e in contatto con il nostro corpo. Siegel chiama MASTERY le strategie che aiutano a rientrare nella finestra di tolleranza, ovvero recuperare la sensazione di avere controllo della propria vita e delle proprie emozioni (calmarsi se iperattivati o attivarsi se ipoattivati). Tra le strategie di regolazione emotiva rientrano: - il contatto sociale: poter parlare con qualcuno di ciò che sta accadendo, sfogarsi, confrontarsi e comprendere le nostre emozioni è fondamentale per potersi conoscere meglio e diventare padroni di sè (ad esempio, con la psicoterapia); - le tecniche psico-corporee per tornare nel qui e ora e recuperare il controllo delle sensazioni fisiche; - la consapevolezza delle proprie risorse, interne ed esterne, del passato e del presente, che ci permettono di sentirci capaci di far fronte alle situazioni. Qui di seguito vi riporto alcune tecniche proposte dalla psicoterapeuta Maria Puliatti, terapeuta sensomotoria ed esperta di psicotraumatologia, utili quando sentiamo di sentirci particolarmente agitati o ipotonici, perchè ci aiutano a tornare nel qui e ora e a recuperare senso di padronanza. Vi consiglio anche di guardare il percorso "Sei paia di occhiali per allenare il benessere", in particolare l'allenamento degli occhiali rossi dove si parla di emozioni e degli occhiali gialli dove si parla di risorse. Se vi sentite sopraffatti dalla vostra attivazione e non riuscire a recuperare il controllo delle vostre emozioni e sensazioni, non abbiate timore a confrontarvi con uno specialista per poter capire meglio cosa sta succedendo. In un processo di cambiamento, il fallimento è una tappa indispensabile.
Il fallimento ci segnala che non avevamo preso in considerazione qualcosa che ci ha ostacolato nel percorso. Quando falliamo, tutto il pezzo fatto fino a qui fa già parte di noi. Non ha senso (ed è impossibile) ricominciare da capo. Per difenderci ci può capitare di negare, discolparci (dando la colpa all’esterno), diventare aggressivi (la paura e la tristezza spesso si mascherano con la rabbia), mentiamo per apparire migliori. Oppure, ci affossiamo. In questi casi, il nostro giudice interiore è all’azione per sgridarci e mortificarci (a volte, dando voce a ciò che temiamo possano pensare gli altri di noi). Il giudizio e la critica eccessivi non fanno bene a nessuno, non migliorano ma mortificano e indeboliscono. Solo se ci sentiamo capiti, compresi e accettati così come siamo (imperfetti!) allora riusciamo a reagire alle avversità. Ecco una proposta di esercizi che puoi fare per ammorbidire il tuo giudice interiore: 1. Ascolta cosa ti dici, facci caso: quali parole e frasi ricorrenti usi per criticarti, con quale tono, con quale messaggio su di te. Prova a pensare se questa voce interiore ti ricorda qualcuno che in passato ti criticava proprio allo stesso modo (forse allora quella voce è sua e non tua, restituiscigliela!) 2. Parla con il tuo giudice interiore, ringrazialo per la sua presenza ma digli (non gentilezza!) che non ti è utile così. Mostragli in che modo le sue parole possono esserti utili: riformula i suoi giudizi contestualizzandoli e prova a capire cosa puoi fare per migliorare. 3. A volte, ci viene più facile essere più comprensivi con gli altri e meno con noi: prendiamo esempio dal modo in cui trattiamo gli altri. Altre volte, ci scarichiamo meglio se trattiamo male gli altri e desideriamo che gli altri ci comprendano: facciamo agli altri quello che vorremmo ricevere noi. Per saperne di più sul pensiero critico guarda "Un paio di occhiali neri" del progetto "Sei paia di occhiali per allenare il benessere". I bambini lo fanno spontaneamente, da subito: piangono, protestano, assillano per ottenere ciò che vogliono, chiedono mille volte perché per conoscere e capire il mondo che li circonda, chiedono se possono fare qualcosa per potersi mettere in gioco e sentire utili e capaci.
Poi si cresce, si impara a diventare autonomi, si deve diventare autonomi e se chiedi una mano puoi iniziare a ricevere dei rifiuti. Non solo, delle squalifiche: “insomma, non posso mica sempre esserci io ad aiutarti, sei grande, devi cavartela da solo”. E così si apprende che crescere, diventare grandi, vuol dire diventare indipendenti ma anche soli. In realtà, autonomia vuol dire sì essere capaci di fare le cose per proprio conto, ma non toglie uno dei bisogni e delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano: siamo animali sociali, siamo immersi nelle relazioni, siamo interconnessi. E questo vuol dire che possiamo appoggiarci uno sull’altro, sostenerci, dimostrarci vicinanza, amore, gratitudine. Possiamo chiedere. Quante volte quando un nostro amico o parente è in difficoltà noi diciamo “se hai bisogno sono qua, chiedi!”. Saper chiedere è utile per chi fa la richiesta, perché non ci fa sentire soli, e anche per chi la riceve: ci fa sentire utili, importanti per chi ci chiede la nostra presenza (che sia una mano, un po’ di tempo, un consiglio, un gesto di affetto). "Se lo chiede proprio a me è perché sono importante, ci tiene a me!" Perché allora ci viene così difficile chiedere? Perché siamo stati educati a non avere bisogno dell’altro, perché bisogna essere forti, capaci, integri, perfetti. Se chiedi sei debole, se chiedi mostri le tue fragilità, se chiedi ti metti in balia dell’altro. È vero, mostri le tue fragilità, i tuoi bisogni. È vero, ti metti in balia dell’altro perché gli lasci il potere di decidere se assecondare la tua richiesta oppure no. Ma non è segno di debolezza, bensì di forza e consapevolezza di sé. Se chiedo ti mostro anche chi sono io, ti dimostro la mia direzione, ti mostro i miei bisogni e cioè ti dimostro che so chi sono e che non ho paura a mostrarmi. Dimostro che ho bisogno di te, che voglio stare nella relazione con te. Ed è un grande gesto di coraggio mostrare i propri sentimenti! Cosa ci fa paura del chiedere? Tre cose: 1. che l’altro possa dirci di no! La paura del rifiuto è una delle paure più diffuse per quanto riguarda il nostro mondo sociale: sentirsi dire no non piace neanche ai bambini perché si sentono limitati e non riconosciuti. Figuriamoci da adulti! Ci sentiremmo profondamente feriti, dubiteremmo del nostro valore. Allora meglio prevenire, meglio dirci di no da soli e chiuderci in un vittimismo che ci fa sentire soli e sfiduciati nei confronti degli altri. 2. Che l’altro possa vedere il nostro lato debole e quindi rovinare la nostra immagine sociale: devo essere forte, autonomo, indipendente, praticamente perfetto. Meglio difendermi e non chiedere! 3. Che l’altro non mi conosca veramente e quindi che possa mettere in dubbio la relazione: non chiedo, ma pretendo che l’altro faccia certe cose per me, lo dovrebbe già sapere prima ancora di chiederlo! Ricordatevi: il chiedere è un atto spontaneo, anche il rispondere lo è! Sono libero di chiederti qualcosa e ti lascio la libertà della tua risposta. C’è fiducia, rispetto, gentilezza in questo scambio. Se pretendo, mi lamento, piagnucolo, faccio un capriccio tolgo la libertà, obbligo, divento arrogante, vincolo l’altro. E sicuramente ciò che riceverò sarà un rifiuto, se non alla mia richiesta sicuramente al mio bisogno di riconoscimento. Quante volte ci sarà capitato di arrivare a un certo punto e non farcela più… iniziamo a sentirci nervosi, agitati, irritati. Iniziamo a sentirci stretti dentro il ruolo, il compito o il dovere che stiamo svolgendo, iniziamo a provare frustrazione perché non vorremmo essere qui in quel momento. Iniziamo ad accusare gli altri e la situazione che ci complicano la vita o che ci costringono a fare o diventare ciò che non vogliamo.
Ecco, in tutte queste situazioni, è importante fermarsi e scegliere! Quando arriviamo a toccare il nostro limite e a crollare, vuol dire che abbiamo perso il controllo delle nostre azioni e la libertà di azione. Ci sentiamo in preda alla situazione, vittime di un sistema che non abbiamo voluto, costretti a fare ciò che più si allontana dal nostro volere. E stiamo male. In questi momenti, è importante fermarsi, perché i sentimenti che stiamo provando sono un chiaro segnale del nostro malessere. Ed è importante chiedersi dove ci siamo persi, dove abbiamo perso la libertà di scelta delle nostre azioni. Nello sviluppo, la fase dei “no” è fondamentale (infatti compare ben 2 volte durante la crescita: intorno ai 2 anni e nell’adolescenza) perché ci permette di introdurre una alternativa ai “sì”, così anziché accettare per obbligo o sottomissione, accettiamo perché lo scegliamo, perché lo vogliamo. Allo stesso modo, sapere che possiamo scegliere di continuare a fare ciò che facciamo perché abbiamo a disposizione la possibilità di smettere, rende le nostre azioni libere e volute, non obbligate o imposte. E questo ci permette di acquisire padronanza di noi stessi. Quando ci chiediamo “ma perché sto facendo questo?” possiamo:
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AutoreSono Anna Gigliarano, psicologa psicoterapeuta sistemica. Categorie
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